III

i nuovi canti minori e i «paralipomeni»

La ragione fondamentale dell’imperfetta realizzazione dei componimenti, che esamineremo in questo capitolo, è da ricercarsi senz’altro nella debolezza, in essi, di quella ispirazione personale che è propria della nuova poesia leopardiana e che abbiamo vista perfettamente attuata nei cinque canti del capitolo precedente. Certo, mentre nel capitolo precedente la linea era chiarissima, in quanto che la nuova forma traspariva evidente da tutte le analisi, in questo capitolo la linea che unisce le singole analisi è piú incerta, piú negativa che positiva: i canti minori sono infatti legati dalla comune fiacchezza di ispirazione e dalla loro qualità di momenti di preparazione o di pausa rispetto ai nuovi canti già esaminati. I nuovi canti minori mostrano chiaramente, da una parte, che essi sono inferiori agli altri per la mancanza di ispirazione personale, e, dall’altra, che in essi permangono i caratteri stilistici della nuova forma; e rispondono quindi benissimo alla mia tesi che afferma l’unità del periodo e la qualità personale della nuova poesia: là dove questo accento personale manca, cade la grande poesia e restano solo quelle finezze stilistiche che sono proprie del gusto maturo del nuovo Leopardi. I nuovi canti minori sono perciò, piú che deviazioni volute dalla nuova linea poetica, dei tentativi falliti per poca ispirazione e vanno considerati come riecheggiamento o come preparazione dei canti realizzati.

Il nostro esame consisterà appunto nel ricercare in essi le forme della nuova poesia, e nel ricollegarli come momenti inferiori ai canti maggiori da cui piú direttamente dipendono.

Consalvo

Questa poesia ebbe, nel periodo precrociano, l’onore di infinite discussioni che mostrano quanta incertezza regnasse fra i critici che andavano, nei riguardi del Consalvo, dalla ipervalutazione piú calorosa al deprezzamento piú assoluto. Inoltre i critici storici con argomenti filologici e cronologici, contrastavano circa la data di composizione del canto, ondeggiando fra il 1822 e il 1833, e cioè fra un periodo giovanile e quello della piena maturità.

Un ultimo argomento filologico sembra aver definito ormai la questione della data, ma a noi preme far notare che in ogni modo, proprio per considerazioni estetiche, il Consalvo non può non essere collocato nei nuovi canti, come momento inferiore dell’ispirazione da cui nacquero il Pensiero dominante e Amore e morte. A parte i moltissimi argomenti di contenuto che ricordano Aspasia e l’amore fiorentino (ad esempio, il ricorrervi di un motivo che ossessionava il poeta in quegli anni: «due cose ha belle il mondo: amore e morte»), è proprio la forma della poesia che non ci permette di allontanare il Consalvo dal periodo dei nuovi canti.

Infatti le forme stilistiche della nuova poesia vi ritornano chiaramente anche se fiaccamente e non vivificate da quell’energia che le vivifica nei nuovi canti piú riusciti. I particolari formali del Consalvo quindi, mentre lo riattaccano ai nuovi canti e mostrano che la nuova forma è comune a tutte le poesie del periodo, mostrano d’altra parte che fuori dell’ispirazione personale la forma nuova diventa cosa morta, di abitudine esteriore.

Il momento da cui nasce il Consalvo è un momento di fiacchezza nell’amore del Leopardi, un momento di sfogo torbido e sensuale. Reggersi all’altezza del Pensiero dominante era cosa difficilissima e richiedeva un’energia impossibile a mantenersi sempre nella stessa tensione. Il poeta, che aveva trovato un’altissima soddisfazione nel pensiero e nella vista della donna amata, ha ora bisogno di rappresentarsi Aspasia viva e vicina, ha bisogno di compensarsi della realtà amara con un sogno di vittoria: sfugge insomma il presente in una costruzione effimera e si bea di un sogno che sa irrealizzabile nella vita.

Il suo purissimo atteggiamento lirico, che è caratteristica costante dei grandi canti di questo periodo, si infrange qui e dà luogo ad una costruzione fra novellistica e drammatica di scarsissima efficacia artistica.

La personalità non si afferma entro gli schemi della finzione storica e dialogica, ma si sfoga con minore virilità e con maggiore abbandono diluito: sembra che il Leopardi abbia voluto ficcare tutto se stesso con tutti i suoi sentimenti (l’odio della vecchiaia ecc.) e le sue vicende amorose piú esterne.

Certo, il poeta, coerentemente ai suoi nuovi principi estetici, cerca per quanto può di ridurre le soprastrutture del colorito storico e le descrizioni, e di concentrarsi soprattutto nella parlata di Consalvo che doveva essere nella sua intenzione una piena effusione lirica. Di conseguenza anche la realizzazione drammatica è completamente fallita e dà luogo solo ad un romanticismo sforzato e comune, in cui alcune espressioni piú nobili e piú leopardiane stonano ritardando fra l’altro la narrazione:

Impallidia la bella, e il petto anelo

udendo le si fea: che sempre stringe

all’uomo il cor dogliosamente, ancora

ch’estranio sia, chi si diparte e dice,

Addio per sempre. e contraddir voleva,

dissimulando l’appressar del fato,

al moribondo. Ma il suo dir prevenne

quegli, e soggiunse: [...]

Discontinuità, incertezza fra brevità e abbondanza, fra drammatico e lirico, che dura per tutta la poesia e disorienta notevolmente il lettore.

Il Leopardi non aveva nessuna attitudine alla costruzione drammatica (basti ripensare all’abbozzo della Telesilla) e qua invece per crearsi una realtà surrogata in cui soddisfarsi momentaneamente, ricorre a questa finzione preziosa, non di un amore trionfante, ma di una specialissima occasione al limite fra vita e morte. La situazione stessa del Consalvo è già una deviazione dall’atteggiamento lirico di questo periodo, e spiega in gran parte il fallimento di tutta la poesia.

Da questo stesso doversi mettere nei panni di un altro e dal dover narrarsi invece che esprimersi immediatamente nella piú intima liricità, è già spiegato il tono falso e sfocato della poesia. Il poeta ebbe certo coscienza di questa impostazione ambigua e cercò di rimediarvi convergendo la sua massima cura sulle parole del moribondo e affrettando le parti narrative, storiche in modo esagerato, provvisorio: cosí non ottenne la completa purezza del motivo lirico e sciupò ogni possibile effetto romanzesco descrittivo.

I primi ventitre versi del canto sono la miglior prova di ciò: sbrigativi, tenuti su da zeppe di avverbi che potessero giustificare il grande numero di considerazioni particolari sulla ricapitolazione del caso di Consalvo: «pur gli era al fianco [...] Benché nulla d’amor parola udita […]».

Del resto anche nel corpo del canto i legami narrativi sono oscuri e pesanti. In essi si sente ancor piú materializzato lo sfogo del poeta che vi aduna i particolari piú sensuali del suo tormento d’amore:

Piú baci e piú, tutta benigna e in vista

d’alta pietà, su le convulse labbra

del trepido, rapito amante impresse.

I punti piú di slancio esterno sono anche i piú torbidi, di pessimo romanticismo:

[...] E ben per patto

in poter del carnefice ai flagelli,

alle ruote, alle faci ito volando

sarei dalle tue braccia; e ben disceso

nel paventato sempiterno scempio.

Anche nei momenti piú direttamente autobiografici e vigorosi, il tono è sempre quello di uno sfogo impacciato dalla necessità di costruzione:

Come al nome d’Elvira, in cor gelando,

impallidir; come tremar son uso

all’amaro calcar della tua soglia,

a quella voce angelica, all’aspetto

di quella fronte, io ch’al morir non tremo!

Ma la lena e la vita or vengon meno

agli accenti d’amor. [...]

Qui, ad esempio, sembra affacciarsi un accento forte, personale, ma è subito sparpagliato, guastato dai versi seguenti. La debolezza del Consalvo è dunque nel tono generale che infiacchisce anche dei tratti piú parzialmente riusciti, e invilisce espressioni singolarmente fini, da Aspasia: «or tu vivi beata [...]». Il vizio è proprio alla radice del canto che riesce un’espressione mediocre, non sostenuta, anche nelle sue cose migliori, da quell’intima forza poetica che si trova negli altri grandi canti. C’è lo stesso artista di quelli, ma come malato, indebolito: ci si riconosce la sua sigla, ma manca la stretta potente dell’ispirazione personale.

Le due canzoni sepolcrali

Il Consalvo è l’esempio piú chiaro della necessità dell’ispirazione personale nella poesia del nuovo periodo e in esso le nuove forze stilistiche sono talmente fiacche, a causa della natura torbida e sensuale del canto, da non permetterci di salvarlo neppure per un costante tono di eleganza. Invece per le due sepolcrali, se anche in esse manca l’accento che le renda poesia grande, bisogna ammettere una continua finezza alla quale il Leopardi è oramai giunto.

Mentre il Consalvo nasce in una situazione torbida, febbricitante, le due sepolcrali nascono in un momento piú disteso, quasi di ripensamento pacato dopo lo sforzo formidabile della Aspasia.

Il Leopardi aveva ancora di fronte a sé la bellezza di Aspasia, per la quale non prova piú amore, ma che non poteva nemmeno dimenticare e sulla cui natura ancora si affannava: in che consisteva quella bellezza che aveva saputo suscitare in lui tanta divina passione? Non era anch’essa cosa caduca? Si distacca cosí sempre piú dal relativo e si apre la via alla comprensione della socialità, dell’unione degli uomini contro la natura «illaudabil maraviglia», cui si fanno risalire tutti i dolori degli uomini. Si comincia a delineare qui quel contrasto che nella Ginestra acquisterà ben altro vigore grazie alla partecipazione diretta della personalità del poeta.

Qui il poeta è come un po’ in disparte, interroga con una certa smagata pietà per qualcosa di non completamente assimilato: non s’impegna con lo slancio impetuoso che eleva la poesia dell’Aspasia o della Ginestra.

Nella prima sepolcrale circola una certa energia sentimentale (specialmente di fronte al mistero della morte che tronca ogni legame affettivo) e permette dei momenti piú carichi e incalzanti, ma il tono generale è come di calma dolorosa, senza una violenta partecipazione del poeta. Anche la stessa ispirazione di riverbero (bassorilievo antico) trattiene il poeta da una espressione vigorosa e personale, cui sarebbe stato piú facilmente spinto da una morte contemporanea. Ad ogni modo anche in questa canzone si sente chiaramente che il Leopardi è lontanissimo dall’idillio e da quel calore nostalgico in cui erano state cantate le fanciulle morte del periodo idillico: ora vede le cose piú in assoluto, piú universalmente, e constata con interesse piú profondo l’impassibilità della natura di fronte alle sventure degli uomini.

Data questa situazione calma e misurata, per quanto seria, la canzone è soprattutto prova della aristocraticità dell’espressione che si era conquistata il Leopardi in quest’ultimo periodo della sua vita: la caratteristica piú visibile di questa poesia è appunto una signorilità che rarissime volte può diventare vigoria e slancio e che spesso decade in freddezza. Bisogna vedere questa poesia in tale speciale luce e notare, come negli altri canti minori, che, se i particolari stilistici sono sempre gli stessi che nei canti piú riusciti, qui restano però piú vuoti e inanimati. Cosí nell’inizio il «bellissima donzella», usato assolutamente alla maniera del «bellissima fanciulla» di Amore e morte e di altre espressioni consimili del Pensiero dominante, è piú fiacco ed esterno. Anche qui, del resto, l’accentuazione di «solo», l’ampiezza del gerundio, la ripetizione della stessa mossa: tornerai tu? farai tu.

Anche qui i paragoni sono sentiti come una deviazione:

Come vapore in nuvoletta accolto

sotto forme fugaci all’orizzonte, [...]

che scompare di fronte al leggerissimo e delicato:

dileguarsi cosí quasi non sorta.

Ma sono particolari meno spontanei e meno riuniti da un unico accento, sí che, in conclusione, in questo canto non c’è da notare positivamente altro che un certo tono nobile, eletto che spesso decade a freddezza («questo se all’intelletto / appar felice, invade / d’alta pietade ai piú costanti il petto») e, piú che interi periodi lirici, produce delle frasi squisite, ma staccate: «Questa sensibil prole [...] piena d’affanni / l’onda degli anni [...]».

[...] di strappar dalle braccia

all’amico l’amico,

al fratello il fratello,

la prole al genitore,

all’amante l’amore: [...]

(in cui l’effetto è dovuto alle trasposizioni felicissime e, nell’ultimo verso, all’uso dell’astratto per il concreto: all’amante l’amore). Della natura poco vigorosa di questo canto ci è prova soprattutto la terza strofa che fa ripensare per le numerosissime spezzature all’A se stesso. Ma, mentre nell’A se stesso non c’era ombra di sforzo e il risultato invece era di un’estrema vigoria, qua ci si sente un’intelligenza abilissima piú che una necessità poetica e le pause son piú che altro pause di vuoto non superato dall’impeto continuo della poesia.

Concludendo le osservazioni su questo canto, si deve rilevare la sua posizione di tregua, il suo tono signorile, che conferma l’altezza di gusto cui il Leopardi era arrivato in questo periodo, e, d’altra parte, la scarsa realizzazione poetica là dove manca la forza dell’ispirazione personale.

Se nella prima manca una forte ispirazione che trasporti la poesia oltre quel grado di signorilità e di eleganza che la caratterizza, nella seconda canzone sepolcrale si sente anche di piú questo fondamentale difetto: ci resta un’impressione blanda, come di cosa raffinata, ma quasi per nulla sorretta da vera ispirazione.

La situazione in cui nasce, è poco intensa ed il Leopardi si trova in questo canto piú come osservatore che come protagonista. A causa di questa debolezza di concezione anche i motivi dominanti restano staccati, saldati da suture morte («Misterio eterno dell’esser nostro», ad esempio, che è una vuota riflessione esclamativa per aprire la nuova serie di pensieri sulla caducità rapida della bellezza); e si può distinguere una specie di petrarchesco trionfo della morte, in cui si cela il ricordo di Aspasia, un contrasto fra le virtú e la caducità della bellezza, una ripresa del motivo precedente riprospettato come rottura d’armonia, e, infine, staccate, a prezioso contrasto, le due domande finali che chiudono il canto accentuando il carattere di dubbiosa meraviglia che predomina in questo clima poco teso e poco violento. È dunque un momento di debolezza, in cui piú che altro il poeta constata con serietà, ma senza impeto, la caducità della bellezza ed affaccia, senza eccessiva convinzione, delle domande alla natura: domande che si realizzeranno invece potentemente nella Ginestra, alla quale il Leopardi posteriore all’Aspasia sembra tendere come alla piú completa espressione della propria anima.

I procedimenti soliti di questo periodo si rivelano chiaramente in tutto il canto, ma sono appunto piú vuoti, piú cristallizzati per la mancanza dell’ispirazione personale: cosí nell’inizio il poeta tenta un contrasto fra l’oggi (putrefazione e morte) e l’ieri (bellezza e vita) ed aggruppa perciò prima impressioni di staticità, di supinità tombale (Inutilmente collocata invano /..., muta, sta...) e poi i particolari della bellezza (svolti secondo la progressione già tenuta nell’Aspasia) per accentuare il contrasto. Ma tutte quelle parole restano staccate, non unite da un energico interesse al contrasto e il finale

([...] or fango

ed ossa sei: la vista

vituperosa e trista un sasso asconde.)

che dovrebbe riprendere la constatazione della morte e chiudere con terribilità cupa il contrasto, è solo un ritorno stanco e senza efficacia. Subito dopo, l’opposizione fra ieri e oggi è ripreso con intelligentissimo senso di continuità, dal contrasto fra oggi e «diman», che inverte l’ordine temporale (prima la morte era l’«oggi» ora è il «diman»); ma è sempre un contrasto fondato soprattutto su parole ricercate e grandiose, che tentano di supplire alla mancanza di vera ispirazione: eccelsi, immensi pensieri e sensi inenarrabili, sovrumani fati, fortunati regni, aurei mondi, abominoso, abbietto. È proprio caratteristica di questo canto la ricerca esagerata di parole altamente significative, che si accentua specialmente nel paragone musicale:

Desiderii infiniti

e visioni altere [...]

onde per mar delizioso, arcano [...]

un paradiso creato da parole preziose e non da un impeto di elevazione come avviene nel Pensiero dominante.

È da notarsi insomma conclusivamente che le forme stilistiche sono sempre quelle della nuova poesia, ma sono prive della loro giustificazione piú intima e restano piú alla superficie (come avviene ad es. ai versi 25-27:

beltà grandeggia, e pare,

quale splendor vibrato

da natura immortal su queste arene

in cui delle parole, in altri canti vigorosissime, restano sbiadite e senza rilievo).

Queste due canzoni interessano, ancor piú che in se stesse, come preparazione della Ginestra. Si deve a proposito osservare che anche stilisticamente nelle due canzoni c’è un preannuncio del tono della Ginestra, in certe frasi snelle, allungate (specialmente ai versi 81-98 della prima) e in certe mosse piú sprezzanti di ogni apparente prosaicità:

[...] che se nel vero,

com’io per fermo estimo, [...]

Paralipomeni, palinodia e nuovi credenti

Se la Ginestra richiama in parte le due canzoni sepolcrali, piú direttamente si ricollega ai Paralipomeni, alla Palinodia e ai Nuovi credenti, che sono appunto da considerarsi come la preparazione di quel mondo evangelico-eroico che troverà la sua completa espressione nella Ginestra. Questi componimenti rappresentano il lato piú diffusamente negativo del nuovo Leopardi che sente la necessità di spiegare le proprie convinzioni e vi si prepara intanto criticando e schernendo i propri avversari. La scarsa ispirazione personale lo induce ad un tono satirico e mediocre, lontano dalla forte liricità propria dei nuovi canti.

Quando invece sentirà la necessità di esprimersi chiaramente, di affermare vigorosamente le proprie convinzioni e la propria personalità, quando parteciperà totalmente al contrasto fra sé e il «secolo superbo e sciocco», si aprirà la possibilità di una grande poesia.

Ad ogni modo è notevole che in questi componimenti il poeta introduca piú spiegatamente che altrove l’elemento ragionativo e tenti di esprimere il mondo delle proprie idee. Non si deve perciò considerare questa poesia come doratura superficiale di un contenuto impoetico, ma piuttosto si deve ritenere come uno sforzo non riuscito di un’espressione completa, unitaria. Anche qui i veri accenti poetici si trovano dove la personalità del poeta si affaccia piú apertamente, mentre nel resto riscontriamo la solita presenza di forme stilistiche nuove, non sostenute da vero spirito poetico.

Per i Paralipomeni occorre osservare anzitutto che il loro tono speciale è dovuto in gran parte alla tradizione satirica in cui vennero ad inserirsi. Il Leopardi aveva già per tre volte (nel ’15, nel ’21, nel ’26) tradotto la Batracomiomachia, e tanto ripetuto interesse fa pensare che quel motivo di grottesco, che nell’originale è soprattutto scherzoso e divertente, trovasse molta accoglienza nell’animo del Leopardi e che quindi i Paralipomeni ne dovessero poi in certa misura risentire. Inoltre l’uso dell’ottava, che doveva inevitabilmente richiamare i poeti che se ne erano serviti (e specialmente gli eroicomici Pulci, Tassoni, Lippi ecc.), imponeva al Leopardi una particolare forma che serve a ben distinguere i Paralipomeni dagli altri due componimenti satirici dello stesso periodo.

Nei Paralipomeni il Leopardi soddisfa il proprio bisogno di critica dei reazionari oppressori e dei nazionalisti progressisti, ottimisti: non entra quindi tanto in lotta con gli uni o con gli altri, quanto si pone da osservatore critico di tutti e due. È una posizione meno violenta, meno combattiva che negli altri nuovi canti, che gli permette la lunga narrazione invece della affermazione lirica e personale: non una deviazione dalla poesia di questo periodo, ma un momento piú blando, meno impetuoso, in cui il poeta si sente in dovere di analizzare satiricamente le forze contro le quali combatte per poterle poi, sintetizzate, usare come di termine di contrasto col proprio ideale di vita. Quest’opera ha perciò molta importanza in funzione della Ginestra. Come lo Zibaldone prepara le Operette, analizzando ciò che esse sintetizzano, e sgombrando il terreno di ciò che nelle Operette non poteva venire assimilato, cosí qui i Paralipomeni, la Palinodia, i Nuovi credenti, eliminano, assorbendoli in sé, quegli elementi piú crudamente polemici e negativi che non potevano essere accolti nella Ginestra.

Il poeta, per la posizione poco violenta in cui si trova, ha bisogno di vedere le azioni degli uomini che disprezza, piú ridicole che eccitanti ad uno sdegno dichiarato e si serve perciò dell’immeschinimento animalesco: egli uomo e gli altri riducibili a topolini. Non è certo un riso bonario, ma neppure uno sdegno violento: gli basta di abbassare l’umanità nei limiti dell’animalità. È inutile quindi ricercare nei Paralipomeni dei precisi travestimenti di personaggi storici, poiché il valore del poemetto è nel clima largo, grottesco, nel degradamento di tutti gli uomini stolti (e tutti gli uomini sono stolti in questo momento per il poeta) a sorci. Cosí alle strofe 15-17 del canto vi, in cui sono mirabilmente descritte le congiure, l’effetto è dato dal persistere della qualità di topi nelle mosse umane dei congiurati: la sorcinità di questi congiurati, che vanno cantando arie sospette, è quella che getta il ridicolo sui veri, umani congiurati. E anche quando la satira si fa piú intellettualistica e si dilunga nella critica dei filosofi contemporanei, resta sempre il soggetto «topo» a campeggiare sulla scena e a dare il tono del poemetto. Si può dire insomma che i Paralipomeni siano notevolmente riusciti, per l’intento con cui furono concepiti. E l’intento era di schernire tutti gli inconsci avversari della morale eroica che il Leopardi andava svolgendo.

Data questa concezione poco robusta e di scarso impegno personale, si comprende il tono generalmente facile e disinvolto di tutto il poemetto, il tono di un artista maturo, che tratteggia con sicurezza massima, a mano libera, senza essere mai sciatto o grossolano. Si capiscono cosí le numerosissime descrizioni di natura che ritorneranno con altro tono e con altro intento nella Ginestra. A volte queste descrizioni servono a formare dei grandi sfondi su cui porre a contrasto i piccoli protagonisti, a volte s’incalzano vicinissimi e sovrabbondanti per stabilire un clima epico grandioso, ma sono sempre in funzione del tono accogliente di tutto il poemetto.

Questa facilità dei Paralipomeni si osserva perfino nei tratti piú direttamente seri ed ispirati, come in quelli in cui il poeta canta la grandezza caduta dell’Italia e di Roma e la morte di Rubatocchi con l’invocazione alla virtú. Sono certo i tratti piú sentiti e vigorosi («Regina torneria la terza volta […] E questo arriva perché quantunque doma […]»), ma sempre come un po’ affrettati, poco espressi dal profondo. Nel secondo esempio l’invocazione alla virtú ha due acme nei principi delle due strofe

(Bella virtú, qualor di te s’avvede,

come per lieto avvenimento esulta

lo spirito mio: [...]

Ahi ma dove sei tu? sognata o finta

sempre? Vera nessun giammai ti vide?)

E poi decade nel tono solito dei Paralipomeni. Un tono poco eroico, che conduce piú facilmente al fiabesco, come si vede in tutto il viaggio del conte Leccafondi e specialmente dopo la tempesta, all’arrivo al castello di Dedalo:

Ciò pensando, e mutando ognor cammino,

vide molto di lungi un lumicino,

che tra le siepi e gli arbori stillanti

or gli apparia ed or parea fuggito.

[…]

È un tono largo che prepara molto da lontano e senza nessuno sforzo lirico, il tono della Ginestra: anche la frequentissima rottura delle ottave che si continuano oltre lo schema fisso del metro tradizionale, accenna al bisogno da parte del poeta, di avere periodi lunghi, liberi, quali realizzerà magnificamente nella Ginestra.

Concludendo, i Paralipomeni vanno considerati come opera di scarsa forza poetica, come momento inferiore, poco eroico, ma utile preparazione alla Ginestra in quanto che in essi il poeta tenta un primo assorbimento degli elementi piú ragionativi e sbarazza il proprio campo visuale dai motivi deteriori della sua polemica con il «secol superbo e sciocco».

La Palinodia è facilmente distinguibile nel gruppo dei componimenti satirici precedenti alla Ginestra per il suo tono ondeggiante fra la condanna diretta e l’ironica ritrattazione. Io credo che questo tono indichi appunto la poca pienezza interiore da cui nacque questo canto minore. Ci sono ad ogni modo in questa poesia delle novità di larga ispirazione che preannunciano il fare della Ginestra: vi sono accettate, per esempio, delle parole straniere che altrove il Leopardi non avrebbe mai accolte, l’endecasillabo è trattato con molti enjambements e troncamenti di periodo al mezzo, v’è un ampio uso di gerundi ed avverbi. Tutte cose che indicano una disinvoltura e una larghezza che nella Ginestra diventeranno, ampiezza ben conscia, sinfonia piena di responsabilità. Il tono si alza un po’ quando il poeta lascia la satira e afferra o nega direttamente, ma anche allora in questa poesia facile e poco energica, prevale il tono satirico e scherzoso. È insomma una poesia di poco valore e da considerarsi funzionalmente come preparazione alla Ginestra. (Si può notare in proposito che anche il verso del Petrarca, preposto alla Palinodia, «il sempre sospirar nulla rileva», significa certamente un primo consiglio a passare alla predicazione, alla spiegazione positiva del proprio credo.)

Nella stessa considerazione devono essere tenuti i Nuovi credenti, la cui natura è però piú occasionale di quella acre. Oltre a qualche punto in cui si tentano dei moti personali («incontro al dolor mio»), vi è notevole un certo uso della descrizione topografica e di scenette da miniatura («Sallo S. Lucia [...]») che richiamano i Paralipomeni.

Il tramonto della luna

Il Tramonto della luna sembra sfuggire alla linea dei nuovi canti per la posizione apparentemente idillica e per la scarsa forza eroica da cui è animato. E certo il momento del Tramonto è un momento debole, di ripresa di fiato piuttosto che di slancio, quasi una spossatezza dopo lo sforzo generoso della Ginestra che resta la conclusione piú salda, il testamento del poeta e rappresenta lo sviluppo massimo della nuova tendenza estetica. Perciò ha un significato la decisione del poeta (attuata dal Ranieri) di posporre la Ginestra al Tramonto, per quanto cronologicamente precedente: il Leopardi voleva cosí mettere in chiaro la sua ultima parola, la parola di fede, la parola della sua piú profonda personalità. Mantenendo però l’ordine cronologico, si hanno due vantaggi: quello di vedere la Ginestra come preparata dai tre componimenti satirici con i quali il Tramonto stona, e quello di considerare il Tramonto come un corollario piú fiacco della Ginestra. Infatti il Leopardi in quest’ultimo canto non fa che esprimere una constatazione implicita nell’impeto della Ginestra, vivificandola in un solo larghissimo paragone. Che il fato, la natura non si curino degli uomini o se ne curino solo per far loro male, era stato già detto con ben altra forza nella Ginestra: qui il poeta non sente piú la magnanima spinta al contrasto eroico e cosciente e si limita a specificare nella vecchiaia il piú gran male di cui la natura ci abbia caricato. Nella sua posizione poco energica, piú adagiata, sente meno la natura nella sua immensa potenza vulcanica e la mitifica con un’amarezza piú fine e meno generosa, negli Dei.

Manca dunque anche nel Tramonto della luna quella forte ispirazione che è al centro della nuova poesia leopardiana. In generale il Tramonto trova grazia presso i critici proprio per questa sua mancanza di vigore che provoca un abbandono di apparenze idilliche. Per me si tratta tutt’al piú di analogie esterne (ad esempio il motivo del carrettiere comune al tipo idillico) e penso che la ragione intima della tinta speciale del Tramonto non sia un ritorno all’ispirazione idillica, quanto la debolezza del momento in cui fu concepita. Infatti, senza rifare un discorso già fatto nell’esame della Ginestra, le forme del Tramonto sono sempre quelle nuove e basterà per convincersene notare il carattere spiccatamente funzionale delle descrizioni rispetto al motivo principale: il quadro non è staccato e preponderante come, ad esempio, nel Sabato del villaggio, ma sottomesso al forte «Quale [...] Tal», cosí chiaramente rilevato. Qui non c’è l’armonizzazione degli idilli e la tendenza è sempre di sfuggire il concluso ed attingere forme ampie, slanciate: sono periodi lunghi, in cui predominano i settenari aiutati da improvvisi slargamenti:

dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno

nell’infinito seno [...]

e da rime sparse piú a slanciare che a concludere:

e mille vaghi aspetti

e ingannevoli obbietti

[…]

Anche nel Tramonto della luna cosí restano le forme stilistiche della nuova poesia, ma senza quell’accento personale che potrebbe ravvivarle.

Tutte queste poesie minori formano soprattutto lo sfondo, quale pausa e quale preparazione, dei grandi nuovi canti già da noi esaminati.

Aggiungo un’osservazione che non può trovare posto nel testo e che andrebbe semmai svolta particolarmente: in nessuna poesia come nel Tramonto della luna è spinto cosí innanzi l’atteggiamento romantico leopardiano: tutta la tradizione ha assomigliato la giovinezza al sole, alla luce, il Leopardi invece non sa trovare un termine di paragone alla giovinezza se non nella luna, nella malinconica luce notturna.